Da vivo ero alto e snello, Non temevo né le parole né le pallottole, Non seguivo i sentieri battuti Ma da quando sono classificato defunto Mi hanno piegato la spina dorsale e spezzato il tallone, Novello Achille inchiodato al suo piedistallo. Non posso scuotere questa carne di granito, Non posso strappare dal basamento di pietra Il mio tallone d’Achille. Le costole d’acciaio della mia carcassa Agonizzano nel cemento gelato E sola ancora la mia spina dorsale rabbrividisce.                 Appena morto senza avvertire Lutta la famiglia, prontamente, Plasma la mia maschera funebre. Non so da dove venga loro l’idea, Ma sul gesso hanno limato I miei larghi zigomi da asiatico.             Da vivo sono sfuggito alle zanne dei carnivori E mai mi si applicò il metro quotidiano Ma mi si sbatte nella vasca da bagno, mi si strappa la maschera E il becchino mi misura con il suo lungo metro di legno. Appena un anno è passato Ed eccomi rettificato, incoronato, Scolpito, colato, magnificato. Sotto gli occhi del popolo in massa Mi si inaugura, e via con la musica, Via con la mia voce dai nastri registrati. Si è rotto il silenzio intorno, Dai megafoni scaturiscono i suoni, Dai tetti i riflettori puntano le luci La mia voce stremata dalla disperazione Grazie alle ultime grida del mio sapere S’addolcisce e, colomba, tubo. Tra le piume Taccio, Tutti ci passeranno! E con una voce da castrato urlo tuttavia Alle orecchie degli uomini. Mi si ruba il sudario, mi si restringe. È dunque così che utilizzate la mia morte? I passi del commendatore risuonano collerici e sonori. Ho deciso, come un tempo, di calpestare le lastre di pietra. La folla si è precipitata nei viali. Ho strappato il mio tallone gemente E le pietre si sono scrollate dalla schiena. Chino sul fianco, immondo e denudato, Nella caduta ho lasciato la mia pelle, Ho brandito il mio uncino d’acciaio, E, riverso sul suolo indurito, Dagli altoparlanti straziati Urlo: «Ascoltatemi, io sono vivo!».                
© Gianni Da Campo. Traduzione, 1990