Da vivo ero alto e snello,
Non temevo né le parole né le pallottole,
Non seguivo i sentieri battuti
Ma da quando sono classificato defunto
Mi hanno piegato la spina dorsale e spezzato il tallone,
Novello Achille inchiodato al suo piedistallo.
Non posso scuotere questa carne di granito,
Non posso strappare dal basamento di pietra
Il mio tallone d’Achille.
Le costole d’acciaio della mia carcassa
Agonizzano nel cemento gelato
E sola ancora la mia spina dorsale rabbrividisce.
Appena morto senza avvertire
Lutta la famiglia, prontamente,
Plasma la mia maschera funebre.
Non so da dove venga loro l’idea,
Ma sul gesso hanno limato
I miei larghi zigomi da asiatico.
Da vivo sono sfuggito alle zanne
dei carnivori
E mai mi si applicò il metro
quotidiano
Ma mi si sbatte nella vasca da bagno,
mi si strappa la maschera
E il becchino mi misura con
il suo lungo metro di legno.
Appena un anno è passato
Ed eccomi rettificato, incoronato,
Scolpito, colato, magnificato.
Sotto gli occhi del popolo in massa
Mi si inaugura, e via con la musica,
Via con la mia voce dai nastri registrati.
Si è rotto il silenzio intorno,
Dai megafoni scaturiscono i suoni,
Dai tetti i riflettori puntano le luci
La mia voce stremata dalla disperazione
Grazie alle ultime grida del mio sapere
S’addolcisce e, colomba, tubo.
Tra le piume Taccio,
Tutti ci passeranno!
E con una voce da castrato urlo tuttavia
Alle orecchie degli uomini.
Mi si ruba il sudario,
mi si restringe.
È dunque così che utilizzate
la mia morte?
I passi del commendatore risuonano collerici e sonori.
Ho deciso, come un tempo,
di calpestare le lastre di pietra.
La folla si è precipitata nei viali.
Ho strappato il mio tallone gemente
E le pietre si sono scrollate dalla schiena.
Chino sul fianco, immondo e denudato,
Nella caduta ho lasciato la mia pelle,
Ho brandito il mio uncino d’acciaio,
E, riverso sul suolo indurito,
Dagli altoparlanti straziati
Urlo: «Ascoltatemi, io sono vivo!».
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