Per tante battaglie, per mezzo mondo ho faticato e strisciato dietro al mio reparto. Poi m’han portato a casa, malato e sbattuto su un treno speciale della Sanità. Su un camion m’hanno scaricato alla porta di casa mia, proprio sulla soglia. Guardandola fisso, rimasi basito alla vista: il fumo dal camino sembrava un po’ strano. Alle finestre si cercava di evitare il mio sguardo e la donna di casa non mi salutò come uno di famiglia, non mi abbracciò certamente piangendo, appena alzò le braccia e tornò dentro in fretta. E i cani presero a latrare e a tirar la catena, mentre passavo tra la calca che c’era in casa; inciampando in qualcosa che manco era mia, sentii la porta ed entrai, debole, ginocchioni. Sedeva a tavola, al mio posto di sempre, il nuovo uomo di casa, dall’aspetto torvo. Accanto a lui c’era una donna, ed è per questo, è per questo che i cani abbaiavano. E dunque - pensavo - mentre facevo il mio dovere sotto il fuoco, negando ogni pietà e saggezza, quello aveva spostato ogni cosa, a casa mia e a modo suo, cambiando tutto come gli pareva. Mentre, prima d’ogni attacco, pregavamo Dio che il suo fuoco di copertura non facesse cilecca... Ma questo colpo, più mortale, era sferrato alle spalle e mi si conficcò nel cuore come un tradimento. Mi profusi, come un servo, in un profondo inchino, feci appello a tutta la mia volontà e mormorai: «Bene, scusate il mio errore, ora me ne vado, è la casa sbagliata, amici, dev’esser così.» Questo volevo dire: Possiate aver pace e amore nella vostra casa, e pane a cuocer nel forno... Quanto a lui, beh, manco alzò lo sguardo, come se tutto l’accaduto fosse normale. Traballò, sverniciato, il piancito di legno, ma non sbattei la porta come facevo un tempo. Le finestre s’aprirono appena me ne fui andato e da lontano mi lanciarono uno sguardo colpevole.
© Riccardo Venturi. Traduzione, 2005